Tanti sono i modi ed i percorsi che caratterizzano la vita e le opere di un artista. Molti sono intrecciati con la vita di altri artisti, legati al loro tempo. La biografia che verrà qui rappresentata, invece, è assolutamente unica ed originale. L’artista non partecipa, volutamente, ai riti che celebrano questo o quell’avvenimento culturale. E’ solo e tale vuole essere per rimanere completamente libero da ogni possibile interferenza. Accanto a lui, ugualmente sola, vive la donna che si spoglia di tutta se stessa per donarsi. Lei vive, è la vita stessa , l’unica interferenza che interessa ed accetta quest’artista. Da questo atteggiamento scaturisce la storicità di quanto viene rappresentato. La verità è il messaggio delle opere di cui si parlerà – non la verità del momento, soggetta a tutte le varianti sociali, politiche, intellettuali che necessariamente finiscono col manipolarla e presentarla a
seconda dei vari umori e mode del momento – ma quella che da sempre esiste accanto all’uomo. I protagonisti sono loro: l’uomo e la donna, gli uomini e le donne.
Gallipoli è una città marinara del Salento, conosciuta in tutto il mondo per la sua antica storia. Il turista che la raggiunge è affascinato dalla sua architettura antica, quasi scenografica, al cospetto di un mare dai colori incredibili. Gallipoli esprime il suo maggior fascino nel mistero delle Chiese, negli usi e costumi ancora oggi presenti e vivi del suo splendido popolo. Cosimo Della Ducata nacque il (07-01-1934 / 01-06-1995) in questo luogo e se mai un uomo, un artista, può costituire la sintesi di vicende umane nella Storia e nell’Arte del suo paese, questo non può che essere Cosimo Della Ducata. L’Arte, il suo grande sogno, la sua passione, il suo dolore, la bellezza, l’eleganza, la ribellione, gli appartengono e costituiscono l’humus delle sue opere. Come tutti i grandi artisti, assorbe da fanciullo, come un giovane virgulto, tutto quanto lo circonda e sa rapportarlo alla vicenda umana universale che ci racconta.
E’ nato proprio nel cuore della città antica, da gente semplice parte integrante, egli stesso, di una società umile ma intrisa di grandi valori umani che la povertà esaltava invece, di umiliare. Bambino, lo immaginiamo imprimersi nel cuore i volti stanchi e oppressi della sua gente. Certamente la piccola chiesa della Purità, accanto alla quale è nato, ha costituito per lui, con la sua sensibilità, una inesauribile formazione umana ed artistica. Ricoperta dalle pregevoli pitture di Liborio Riccio con il suo pavimento maiolicato era la sua casa. E’ cresciuto così, fra opere d’arte di grandi artisti del passato, quali Luca Giordano, Vespasiano Genuino e tanti altri che arricchivano le chiese del suo quartiere. Lo vediamo saltellare lungo il ponte seicentesco, davanti alla splendida fontana ellenica, con i suoi antichissimi bassorilievi, davanti al Castello Angioino, dove, si dice, sia nato lo “Spagnoletto”. Adulto, dopo aver superato le inevitabili difficoltà che incontra ogni giovane meridionale che vuole costruire il suo avvenire, si arruola nell’aviazione. La sua storia d’artista inizia quando incontra la sua donna, che sarà per tutta la vita la sua ispiratrice, sostenitrice e modella. Dall’intreccio della loro storia d’amore nasce costantemente ogni impulso, ogni immagine, ogni segno che egli in tanti modi ha creato. Non è soltanto la sua compagna, la moglie fedele che vive accanto all’artista, è un connubio quasi perfetto che fa scorrere in lui come sangue l’essere stesso di questa donna viva, appassionata, con una visione della realtà a volte drammatica mai banale, sempre sentita profondamente con grande verità. Vivere con lei è come essere giorno dopo giorno attori e spettatori, partecipi di un’opera teatrale esaltante e ricca di emozione.
Nascono i suoi particolari colori e segni; dapprima dominano il rosso ed il nero dei cavalli scalpitanti, il bianco ed il nero dei cavalli alati, quasi sempre legati ad un ceppo, agognanti la libertà. I paesaggi rari, dipinti fin da ragazzo e poi, in seguito, sono elaborazioni oniriche di suggestioni antiche che emergono dal suo inconscio. Incominciarono ad emergere poi dal suo inconscio le figure che si celavano all’inizio dietro le immagini dei cavalli con il primo profilo di donna, immerso in una luminescenza particolare che lo rendeva quasi invisibile e cieco. Negli anni le sue opere sono speculari a ciò che gli accade intorno e nel mondo. La raffinata sensibilità gli permette di trasmettere con grande espressività tutta la gamma dei sentimenti umani universalmente riconosciuti: la pietà espressa ne “Il mendicante”, la problematicità sofferta ne “L’intellettuale”, la fede divulgata negli Evangelisti, nella “Processione”, la dolcezza degli “Antichi ricordi”, la gioia della nascita nella “Natività della pace”. L’uomo tace, è la sua arte che documenta e denuncia di volta in volta gli episodi più significativi del suo tempo: “Ai martiri dell’Italicus”, “Settembre Spagnolo”, “Morte, urlo e rassegnazione – Piazza
Fontana 12.12.1969”, “Rivoluzione Romena del 1989”, “I Martiri d’Otranto” (esposto nel Museo Diocesano di Otranto), “Irpinia dopo il terremoto”, “Il singulto dell’upupa”, “L’Apocalisse”, “Via Fani”, per citarne alcune. In queste opere l’immagine della sua donna è sempre presente sia pure non enunciata e forse nemmeno consciamente riconosciuta. Ella diviene il tramite fra le opere che sono ancora viva
materia, come quelle di cui abbiamo accennato e quelle che da ora in poi rappresenterà. E’ in questo periodo che emerge il pathos che appartiene alla gente della sua terra. Il rapporto con il pubblico, tramite le mostre fatte in tutta Italia, ha confermato in lui la
consapevolezza di quei valori fondamentali che hanno costituito il vissuto della sua fanciullezza, che hanno formato il suo carattere ed il suo modo di vivere in sociale con fermezza e chiarezza. Questo suo ritorno all’origine consiste soprattutto nel modo tipico della sua gente d’interpretare la realtà. Nei suoi dipinti gli avvenimenti diventano simboli da consegnare alla Storia. Ora si realizzeranno le grandi tele: Il “Venerdì Santo nei ricordi d’infanzia” (m. 3,03×2,07), “L’Inno dei credenti”(m. 2,30×1,66), la “Via Crucis” – dodici pannelli – (m. 1,47×2,48), “Sodoma e Gomorra” (m. 2×3 ca.), “Il Trionfo della Verità dopo la morte” – dodici pannelli – (m. 1,97×2,52),
per citarne alcune. Parallelamente si perfeziona il suo rapporto personale raccontato così da sua moglie Lilì.
Una mattina del 5 maggio del 1954 passeggiavo con un’amica lungo il mare quando ci vennero incontro due giovani avieri. Salimmo in barca e anch’essi si unirono a noi. Trascorremmo così tutta la mattina di quella splendida giornata primaverile conversando piacevolmente.
Rimanemmo seduti sugli scogli a lungo mentre uno dei due ragazzi ogni tanto raccoglieva dalla battigia alcune conchiglie e le lanciava ai miei piedi; ne raccolsi una e con meraviglia mi resi conto che ciascuna conteneva un disegno realizzato al momento. Attirò così la mia attenzione questo giovane aitante, alto, bruno, con un sorriso smagliante e con due occhi neri lucenti e acuti. Lo guardai. Avevo ricevuto il messaggio: amava dipingere. Con questo dolce incontro iniziò la nostra storia d’amore. Facevo la pendolare per raggiungere la scuola ed una mattina mi venne incontro all’arrivo del treno perché voleva dirmi una “cosa bella”. Ci siamo dati appuntamento per il giorno dopo alla stazione: quando lo raggiunsi ero in ansia e non ne capivo ancora il motivo. Solo dopo la sua partenza sentii che era amore quello che provavo per lui. Lo trovai affacciato al finestrino, scese di corsa dal treno in partenza e mi consegnò un bigliettino, che ancora conservo amorevolmente; mi chiamava Lilì, dichiarava di amarmi e mi chiedeva una foto per mostrarla a sua madre; voleva che lei sapesse – così mi disse – di aver incontrato una ragazza semplice, bella e seria. Il suo amore folle per me lo ribadì in seguito in una lettera in cui mi preannunciava l’intenzione di presentarsi ai miei genitori. Mi sembrava di vivere un sogno. Avevo solo quindici anni ed ero la più piccola di dieci figli. Sapevo fosse difficile che i miei genitori permettessero che ci frequentassimo, ma con la sua semplicità e serietà li convinse e ci fidanzammo ufficialmente. Mi sembrò un vero miracolo considerando la serietà e severità della mia famiglia; mio padre gli consentì di venirmi a trovare a casa solo una volta al mese. Il giorno che arrivava nel mio piccolo paese di provincia non facevo altro che saltellare e cantare, come un uccellino in gabbia. Era come se stesse arrivando il mio principe. Eravamo proprio una bella coppia. Il nostro grande amore ci ha tenuti sempre uniti e così per sempre ci terrà anche dopo la morte.Ci sposammo il 2 maggio 1959, il giorno più bello della mia vita. La stessa emozione ho provato quando i nostri tre figli, che avevano riempito di gioia la nostra vita, ormai musicisti, suonarono per noi nella chiesa dove abbiamo voluto solennizzare i nostri 25 anni di matrimonio. Ci amavamo ancora avvolti nel nostro sincero amore. Erano anni difficili, non era facile mandare avanti una famiglia, ma eravamo sempre più uniti e questo ci dava forza e coraggio. Col passare degli anni sentimmo il bisogno di costruire il nostro piccolo nido, una casa tutta per noi. Tante furono le privazioni per realizzarla ma alla fine ci riuscimmo. Lavoravamo dalla mattina alla sera, facevamo tutti i mestieri possibili, dal muratore al piastrellista, dal falegname all’elettricista, pur di riuscire a realizzare il nostro sogno. Stanchi andavamo a letto mano nella mano e stretti l’uno nelle braccia dell’altro prendevamo sonno. Eravamo felici. Avevamo la nostra piccola casa e anche se non c’erano ancora le finestre trovammo il modo di chiuderle con del compensato ed vi andammo ad abitare. La pace e la tranquillità raggiunta permisero finalmente a lui di realizzare un progetto che accarezzava fin dall’infanzia: dipingere a tempo pieno. Chiuso nella sua casa, mise in pratica la sua ricerca creativa, che nel tempo andò sempre più evolvendosi. Si costruiva le tele da solo, perché in commercio non esistevano grandi per come le voleva lui. Il dipingere lo appagava perché sulle tele riportava tutto quello che sentiva interiormente e che per tanto tempo aveva tacitato, ma elaborato solo nel suo pensiero. Nascono così opere che dimostrano la più totale coerenza con quei valori della vita da sempre riconosciuti e da cui è stato circondato da bambino. Ero orgogliosa di lui, vederlo disegnare e dipingere mi entusiasmava. Una mattina mi presentai di mia iniziativa presso un artista già affermato, Spizzico, per invitarlo a vedere i dipinti di mio marito. A colpirlo fu forse il mio sguardo timido, ma anche il fervore e il trasporto emotivo con cui gli parlavo. Venne subito a casa per vederli e rimase meravigliato e coinvolto da tanta esplosione espressiva. Gli diede un consiglio tecnico, gli disse di arricchire la
tavolozza di qualche altro colore così che le tele prendessero una luce migliore. Fece la sua prima personale il 24 agosto 1968 proprio nella sua Gallipoli, tanto amata. Quel giorno nacque il nostro terzo figlio; il maschietto da lui tanto desiderato. Guardare le sue tele era diventato per i visitatori delle mostre un rito mistico. Voleva che accadesse proprio questo, ognuno secondo lui doveva misurarsi con la realtà della vita. Dipingeva senza limiti e dipingendo sembrava inebriarsi creando intorno a sé un mondo tutto proprio. Esprimersi attraverso le sue creature era diventata ormai una necessità. E intanto io correvo da una parte all’altra per procurargli l’occorrente cercando di lasciarlo libero da ogni problema. Insieme allestivamo le mostre ed insieme raccoglievamo l’apprezzamento e l’entusiasmo
del pubblico. Ed io ne uscivo appagata. Molti visitatori si rivolgevano a me chiedendomi di lui, che cosa lo inducesse a realizzare opere
così sofferte ed espressive, mi domandavano del suo carattere, del suo comportamento in famiglia, se fosse triste e felice. Rispondevo che era un uomo tenace, buono, lavoratore, amabile, sensibile, onesto e leale, dolce e sereno, gioviale ed allegro, quasi un bambino che amava la vita e donava tanta forza a tutti per andare avanti; un messaggio di vita e di onestà, così vedeva i suoi lavori, intrisi di tutti quei valori che vedeva andandosi disgregando in questa società. In un’occasione una personalità di rilievo gli chiese come mai dipingesse quadri scuri e cupi, pieni di rabbia; ed egli raccontò che quella mattina s’era fermato a guardare un mendicante esile e malaticcio, e soffriva per lui, immaginava quali vicende l’avessero ridotto così. Gli spiegò che questi ed altri fatti si accavallavano nella sua mente e dava sfogo nelle sue opere al senso d’impotenza che provava. Quel signore non riusciva però ad intravedere la gran voglia di vivere
una vita felice che si sprigionava in alcune delle sue tele raffiguranti cavalli bianchi ed alati, cavalli in fuga, scalpitanti e seppur legati talvolta ad un ceppo, capaci di sciogliersi dalle catene. Alcune volte per un certo periodo non riusciva a dipingere; immagazzinava e maturava quello che poi doveva lasciare sulla tela. Nascevano così dalle sue mani, dai suoi pennelli, dai suoi colori i lavori più belli. Voleva che anche i più sprovveduti potessero ammirarli e comprendere quanto l’Arte fosse vicina a tutti. In una delle tante mostre espose tre grandi tele al centro della sala: una visitatrice dovette sedersi per la commozione e lo stupore nel vedere che ancora c’era qualcuno capace di far provare sensazioni così grandi, intense e profonde. Parlerei all’infinito di lui e degli avvenimenti vissuti insieme. Terminata la sua opera più possente “Il trionfo della verità dopo la morte” (60m²) la espose per la prima ed ultima volta al Castello Angioino della sua città natale: fu veramente un’avventura sistemarla nella sala del castello ed un caro amico d’infanzia fu orgoglioso di dargli una mano. L’opera appariva trionfante al centro della sala ottagonale e tutt’intorno fu collocata la “Via Crucis”. Fui la prima a recarmi al castello; varcata la soglia provai io stessa un senso di potenza e d’orgoglio: l’avevo vista nascere ed ora era là montata tutta intera in tutto il suo splendore. E’ un’opera maestosa, ispirata ad un grande amore verso Dio e gli uomini e che rappresenta la potenza divina che governa tutto e tutti. Quest’opera mi è stata dedicata: “alla mia adorabile Lina, dedico questa grande opera, a mia moglie che ha saputo soffrire in tutti questi anni della mia vita artistica, insieme a me condividendo gioie e dolori”.
Fu una continua processione di visitatori che si sedevano a meditare come fossero in un luogo sacro. Il successo di pubblico e di critica fu entusiasmante. Dipinse la “Via Crucis” per ben tre volte prima di rimanerne appagato. Ricordo ancora quando dipinse la Crocifissione: nel mettere con il pennello i chiodi sulle mani di Cristo si sentì male come se li stessero mettendo a lui. Soffriva perché indifeso, indignato e frustrato dall’ingiustizia e dall’indifferenza che vedeva dilagare nel mondo; tutto trova nella sua arte un senso costruttivo e realistico. Quando si sentiva paragonato ai grandi del passato diceva di essere solo se stesso. Autodidatta, quando sentiva la sua vena artistica manifestarsi, andava da solo alla ricerca di forme e colori. Il suo cammino artistico, come del resto la sua intera vita, lo ha realizzato con le sue sole forze e con accanto l’unica donna della sua vita. Sensibile osservatore, riusciva a dipingere ed a documentare avvenimenti di tutti i giorni, messaggi inquieti del nostro tempo. Poche sono le persone con cui ha approfondito rapporti non solo d’amicizia, ma soprattutto di cultura, per confrontarsi sugli argomenti che di volta in volta si presentavano nell’attualità. Un rapporto lungo e profondo si stabilì con la Signora Giulietta Livraghi Verdesca Zain – giornalista, scrittrice e poetessa – donna di vasti interessi culturali ed artistici. Persona sensibile ed innovatrice, una delle prime a voler valorizzare in prima persona la cultura locale. Nella sua antica casa le ore scorrevano discutendo d’argomenti più vari, ore scandite da particolari rituali, come sorbire un rosolio ed assaggiare dolcetti, la cui ricetta si perdeva nella notte dei tempi. A lungo quest’atmosfera preziosa, fatta di ricerche autentiche ed appassionate, fu la cornice di approfondimenti su argomenti che venivano sviscerati in profondità nella più assoluta
autenticità e semplicità. Si scontravano spesso opposte interpretazioni della realtà ma la crescita reciproca affascinava ed
attirava l’uno verso l’altro. Alla fine emergeva il pittore che diceva: “io documento, agli altri il compito di leggere e capire”. I suoi dipinti sono lettere aperte. Un giorno lamentò di sentirsi debole, lo rimproverai perché secondo me non eravamo più tanto giovani. E in risposta mi presentò il progetto di un’altra tela da dipingere: il Paradiso. Il Signore invece l’ha voluto con sé: per noi che lo amavamo tanto non fu facile accettare la diagnosi infausta che i medici ci comunicarono. Non gli dissi la verità, credevo nella potenza Divina, speravo che si fossero sbagliati. Sembrava stesse bene; un giorno mi fece montare una piccola impalcatura per realizzare un affresco in una nicchia di casa, ma in seguito compresi che temeva di non poter finire quell’affresco, che difatti rimase incompiuto. Non volevo accettare di perderlo per sempre, ero troppo legata a lui; siamo cresciuti insieme ed insieme abbiamo realizzato tanto. Egli non ha mai sprecato un minuto della sua vita, le sue giornate sono state intense e piene di lavoro. E’ vero che l’uomo nasce e poi muore, ma Dio oltre a riprendersi un uomo buono ha portato con sé un vero artista, un genio che non si fermava davanti a niente ed a nessuno; solo lui poteva fermarlo. Di fronte alla morte aveva chinato il capo serenamente. Sono certa che era appagato della sua vita vissuta. Senza di lui la mia esistenza ora è vuota, ma la sua presenza è ovunque perché sono circondata dalle sue “creature”.
Nel suo studio abbiamo rinvenuto un piccolo foglio con su di esso appuntato: “Ho perso la vita ma
non perdo chi sono”.